“Villaggi che dovrebbero essere cancellati, per un livello di radiazioni tale da ammorbare senza ambiguità, invece esistono e resistono”, popolati da gente che preferisce “nutrirsi di radionuclidi in un luogo tra i più intossicati al mondo, piuttosto che morire di fame in Kazakistan, in Moldavia, in Daghestan”.
Sono stati i nuovi occupanti delle località confinanti con la “zona morta” attorno all’ex centrale nucleare di Chernobyl, a spingere la giornalista Emanuela Zuccalà a tornare a 20 anni dalla tragedia sui luoghi del disastro e a raccontarli oggi in un e-book pubblicato da Infinito Edizioni.
Il volume digitale unisce il reportage realizzato lungo il confine della “zona morta” attorno all’ex centrale, “in un viaggio di quattrocento chilometri tra la Bielorussia e l’Ucraina” con un’inchiesta che fa il punto sulle contraddizioni esistenti tra quanto affermano i documenti ufficiali con le rilevazioni di alcuni studi indipendenti, sugli effetti delle radiazioni nel luogo del disastro.
I dati pubblici dell’Unscear (Comitato scientifico delle Nazioni Unite per lo studio degli effetti delle radiazioni ionizzanti) e il governo ucraino affermano che il pericolo è passato, ma le indagini indipendenti di Greenpeace e di Legambiente asseriscono che chi è tornato o si è trasferito a vivere sui terreni e nelle case nei dintorni della centrale è costantemente a rischio.
“Oggi, oltre cinque milioni di persone continuano a vivere in aree contaminate della Russia, dell’Ucraina e della Bielorussia – sottolinea Zuccalà – circa 270.000 non si sono mosse da quelle che l’Unione Sovietica aveva battezzato “zone di controllo permanente”, perché a elevata presenza di radiazioni”.
La giornalista spiega che poiché le radiazioni si sono diffuse ”a macchie” sul territorio, nel dubbio tante campagne altamente inquinate restano popolate e “negli anni queste terre malate sono diventate persino meta di immigrazione da Paesi ex sovietici più poveri: Moldavia, Daghestan, Kazakistan, Georgia”. “Le case vuote abbondano, i raccolti pure. La radiazione non si vede e non si sente”.
Diverse le testimonianze raccolte, come quella, toccante del figlio di uno uno dei “liquidatori” della centrale di Chernobyl, inviati a spegnere il rogo del reattore, a evacuare l’area e a costruire in fretta e furia il sarcofago protettivo sul nucleo.
“Avevo sedici anni, nel mio villaggio facevo la fame. Mio padre aveva lavorato in Ucraina e io avevo sentito che qui in Bielorussia c’erano case abbandonate da occupare e campi liberi da coltivare. Così sono venuto a Khomjenki, ho scelto una casa, quella in condizioni migliori, e ho trovato lavoro in una stalla poco lontano. Adesso la dirigo io”.
“Mi sono trasferita a Khomjenki perché c’è lavoro: siamo solo trenta abitanti, tanta gente è andata via perché i boschi sono contaminati. Io ho i noduli alla tiroide, mia figlia Natalja ha problemi di stomaco e Dimitri sente dei rumori al cuore. Ma stiamo bene qui”, afferma un’altra donna.
Il volume ricorda come sul pianeta ci sono 442 centrali nucleari attive e 65 in fase di realizzazione. Una di queste è nella vicina Bielorussia, ampiamente colpita dalla nube radioattiva di Chernobyl.