giovedì 2 Maggio 2024

Sara Munari, lapilli

Concesio, Brescia – Nel corso del 2022 l’associazione Arte e Spiritualità, ente gestore della Collezione Paolo VI – arte contemporanea di Concesio, ha emanato il bando della quarta edizione del “Premio Paolo VI per l’arte contemporanea”, concorso «rivolto ad artisti italiani o di nazionalità straniera (purché residenti o domiciliati in Italia)» e consistente nella possibilità di allestire una propria mostra personale presso il museo, secondo modalità differenti che spaziano dall’esposizione più tradizionale, all’installazione site specific e a lavori sperimentali di varia natura, eventualmente anche in dialogo con opere conservate presso la Collezione Paolo VI, ma di norma non esposte al pubblico.

In particolare, in accordo con l’identità e la mission del museo – che da Statuto si pone
l’obiettivo di promuovere gli «apporti offerti dall’arte, nelle sue varie manifestazioni,
all’arricchimento spirituale della vita degli uomini del nostro tempo» –, il “Premio Paolo VI
per l’arte contemporanea” si rivolge ad artisti che con le loro opere intendano riflettere sul
tema del sacro o forse ancora meglio dello spirituale, inteso in senso ampio e non
dovutamente confessionale: «un’arte non necessariamente di tema o soggetto religioso» – si legge nel testo del bando – «ma aperta e attenta ai temi della spiritualità, alle domande sul senso, all’indagine sulla dimensione interiore dell’uomo e sugli interrogativi escatologici».

Nel dicembre 2022 la Giuria del Premio (che corrisponde al Comitato Scientifico del
museo, costituito al tempo da Cecilia De Carli, Paolo Bolpagni, Don Giuliano Zanchi, Elena
Di Raddo, Paolo Sacchini e Marco Sammicheli) ha individuato sei finalisti selezionati tra gli
oltre cento partecipanti al concorso (provenienti da tutta Italia): Fabio Bix, Asako Hishiki,
Camilla Marinoni, Sara Munari, Camilla Rossi e Gianluca Vanoglio.

Un’opera di Sara Munari

La prima fase del concorso si è dunque concretizzata a marzo 2023 nella mostra
collettiva dei finalisti, intitolata «L’UOMO NON È CHE UNA CANNA». Fragilità e dimensione
spirituale, in cui hanno preso vita le molte possibili declinazioni che può assumere, oggi, il
rapporto tra l’arte e la spiritualità, in linea con l’apertura montiniana nei confronti dell’arte
contemporanea come veicolo per giungere alla trascendenza.

In particolare, per la sua quarta edizione il Premio ha proposto un’indagine sul tema della fragilità, intesa quale umana e terrena chiave di accesso alla vita spirituale, alle domande sulle “cose ultime”; quale forma di una cultura intesa come cura dell’anima, delle sue sofferenze, delle sue ansie, delle sue contraddizioni.

È insita nella natura umana l’interrogazione continua circa la propria vulnerabilità davanti all’imperscrutabilità del cosmo, la sostanziale istantaneità del proprio essere al mondo, nonché circa il senso profondo e ultimo dell’esistenza e quindi sull’opportunità di non trascurare mai le questioni veramente essenziali.

Un coacervo di considerazioni esistenziali davvero complesso, ma allo stesso tempo estremamente ricco di aperture e soprattutto di domande sul senso, che passando attraverso territori disparati – biologici, psicologici, sociali, politici, ecc. – giungono infine a farci riflettere sull’uomo e sulla sua ineliminabile tensione spirituale verso l’assoluto.

Ogni artista selezionato ha condensato nelle opere esposte il proprio modo di
affrontare l’arte e di connetterla alla sfera della spiritualità, in un dialogo collettivo in cui si
alternano e si confrontano dialetticamente lavori assai distanti tra loro per tecnica e
linguaggio, ma tutti accomunati da diverse declinazioni della fragilità.

In quest’occasione, Sara Munari ha presentato il video Dont’ let my mother know, corredato da fogli, fotografie e documenti creati appositamente come se fossero un vecchio archivio, per dare concretezza all’impossibile viaggio compiuto dall’artista sul pianeta Musa 23 (MUnari SARa) per ritrovare il padre sofferente di Alzheimer, divenendo metafora delicata e commovente dell’incapacità di comunicare la perdita emotiva dei propri cari, quando affetti da tali complicate e distruttive malattie.

A conclusione della rassegna collettiva dei finalisti, la Giuria ha individuato quale
vincitrice assoluta della quarta edizione del “Premio Paolo VI per l’arte contemporanea”
proprio l’artista Sara Munari, il cui lavoro si è distinto – secondo le motivazioni ufficiali
formulate dalla Giuria stessa – «per la capacità di affrontare il tema della fragilità con grande qualità formale e con una sensibilità e una capacità di introspezione davvero spiccate».

Sara Munari (Milano, 1972) vive e lavora a Lecco. Dopo il diploma di fotografa
professionista all’Isfav di Padova, apre nel 2001 LA STAZIONE FOTOGRAFICA, studio e
galleria, ed è docente di Storia della fotografia e di Comunicazione Visiva all’Istituto Italiano
di Fotografia e di Linguaggio e Costruzione del racconto fotografico in molte sedi italiane.
Munari sviluppa storie visuali attraverso la contaminazione di più media, sempre a partire
dal mezzo fotografico ma integrandolo con sperimentazioni e tecniche differenti; è anche
scrittrice di libri di teoria fotografica e autrice di diversi volumi di sue fotografie, gli ultimi
dei quali prodotti a mano e in pezzi numerati.

Lapilli è la sintesi del fuoco terrestre, in antitesi a quello celeste, il vulcano è un’area di chaos,
intesa nel senso etimologico del termine greco come voragine, abisso che nasce senza sapere dove e da dove, solo si spalanca immenso, e sta in correlazione con Gea, la Terra, Madre cosmica di tutte le creature.

Il vulcano è un simbolo ctonio, sotterraneo, che vive nelle viscere della Terra e per questo gode di una profonda ambivalenza: da un lato catastrofica manifestazione delle forze naturali, portatore di morte e di distruzione, dall’altro potenza creatrice, in nome della fertilità naturalmente presente nei terreni di origine vulcanica.

Il vulcano rappresenta quindi la forza primordiale della natura e come tale è associato
etimologicamente al dio romano Vulcanus – per i Greci Efesto –, fabbro celeste, signore del
fuoco e della lavorazione dei metalli. Archetipo del maschile, Vulcano si presenta tuttavia
come zoppo nell’iconografia classica, in quanto rappresenta la Volontà che simboleggia la
sua imperfezione che verrà corretta per mezzo della Spiritualità. Presto per i Romani però
il dio Vulcano verrà legato quasi esclusivamente ai fenomeni naturali che hanno come
protagonista il fuoco e in primo luogo proprio l’eruzione dei vulcani.

Collegamento tra terra e cielo, tra le voragini e gli antri più bui da un lato e le aperture
e le possibili elevazioni di luce dall’altro, ancora nel pensiero cristiano il vulcano è associato
alla dimensione del Purgatorio, a quel limbo di dantesca memoria, di attesa e di espiazione.

Da un punto di vista scientifico, i vulcani sono strutture geologiche complesse, originate
all’interno della crosta terrestre dalla risalita del magma, massa rocciosa fusa formatasi nelle profondità della Terra. Tale fuoriuscita è l’eruzione vera e propria e ciò che erutta sono lava, cenere, lapilli, gas, vapore acqueo e scorie di varia natura. Tutto ciò determina anche la diversa forma e altezza di un vulcano, insieme alla sua età, al tipo di attività eruttiva, alla tipologia del magma e alle caratteristiche orografiche della porzione di crosta terrestre
sottostante al rilievo vulcanico.

A partire da tali miti e storie, da tale atmosfera velata di mistero e di magia, ma anche
intrisa di ricerca, di viaggio e di scienza, si dispiega la personale narrazione di Sara Munari
intitolata Lapilli, frutto del lavoro attorno alla simbologia dei vulcani, potenze immense e
grandiose, che inducono l’uomo a una fascinazione insieme orrifica e primigenia, per via
dell’indiscutibile bellezza di quei fuochi che paiono scaturire dall’inferno stesso.

«Il mio lavoro esplora il connubio tra l’imponente potenza dei vulcani e l’umanità, tentando di raccontare il modo in cui queste maestose formazioni naturali hanno influenzato le
credenze, le leggende e le pratiche religiose e come invece, nel rapporto reale, la vicinanza
con questi monti condizioni e cambi “il vivere” effettivo», così l’artista racconta il processo
e la narrazione che troveremo in mostra, dove si dispiega il modo in cui sono state
interpretate le eruzioni vulcaniche nel corso dei secoli e delle umanità, segni divini o
punizioni, influenzando vite e culture delle popolazioni circostanti.

Nello specifico, all’interno della mostra Lapilli, Sara Munari si presta a un inedito
gioco di mescolanze tra il medium fotografico puro e la sua contaminazione con teli, veli,
sete, cotoni e una serie di materiali extrapittorici – tra cui la foglia d’oro –, proseguendo in un certo senso il lavoro sul senso della fragilità portato all’interno del video distopico Don’t
let my mother know, con il quale si prefigurava un viaggio su un altro pianeta per riportare a casa il proprio padre malato di Alzheimer.

Munari approfondisce il rapporto tra vulcani, religione e umanità e di conseguenza la sottesa connessione esistente tra gli eventi naturali potenti e la protezione nel momento in cui subentrano leggende, miti ed elementi religiosi che dovrebbero intervenire per salvaguardare l’uomo.

A tale scopo, l’artista, nel corso di circa tre anni e mezzo dal 2019 al 2023, ha compiuto diversi viaggi in Europa, attraversando tutti quei territori abitati da vulcani – in totale circa una quindicina – e raccogliendo materiali differenti, che progressivamente sono andati a costituire una sorta di diario e di memoria di viaggio, capace di custodire visioni, narrazioni, magie e suggestioni.

Fotografie, video, installazioni, sculture sono l’esito percorribile anche dal visitatore all’interno dell’esposizione Lapilli, ma solo se è pronto ad accettare di lasciarsi inghiottire dalla voragine.

L’esposizione prende così vita da una sorta di dicotomia che finisce poi per integrarsi
e creare un insieme speciale e coerente, in quanto il punto di partenza resta sempre la verità del reale, declinata appunto secondo due intrecciate narrazioni: da una parte le fotografie “pure” scattate tra i vulcani e i villaggi in Italia, in Spagna, in Armenia e in Islanda, dall’altra le stesse rielaborate dall’artista, stampate alternativamente su seta o su cotone a seconda dell’effetto ricercato, con l’intromissione di materiali ed elementi “altri”, “barocchi”, costruttori di un senso universale di percorso e di intreccio tra elemento naturale, elemento umano ed elemento rituale.

Apre il percorso espositivo l’unico esemplare di pesce al mondo capace di respirare
in acqua, dotato quindi straordinariamente di polmoni: su un fondo scuro si erge in primo
piano il torace dell’animale marino, circondato da piccoli zampilli di foglia d’oro, indice
dell’incredibile forza della sopravvivenza.

Accanto, tre fotografie che dispiegano la forza distruttrice del vulcano, capace di lasciare senza fiato: strade e muri sommersi, ma anche veicoli che a mala pena si intravedono oltre la coltre nera della lava. Lava che continua a investire e ricoprire tutto ciò che trova sotto di sé e che, seppur nella tragedia e nella distruzione della catastrofe naturale, nella narrazione di Munari pare costruire linee d’orizzonte e di prospettiva perfettamente in equilibrio visivo.

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