Reggio Emilia – Per la sua prima mostra personale istituzionale in Italia, Giulia Andreani presenta L’improduttiva, progetto composto da un corpus organico di nuovi dipinti, tra cui alcuni grandi formati, e di acquerelli concepiti per la Sala Sud della Collezione Maramotti.
Il lavoro di Andreani origina dall’elaborazione di memorie collettive, da frammenti di storia che rischiano di essere perduti, che l’artista recupera e trasforma in articolate composizioni pittoriche, in collage visivi costruiti per corrispondenze.
Sua fonte primaria di ricerca e ispirazione sono gli archivi, e in particolare gli oggetti dell’era analogica che essi racchiudono: lettere sbiadite, documenti ormai ingialliti e soprattutto stampe fotografiche in bianco e nero che l’artista seleziona, raccoglie e filtra in modo non lineare, restituendone gli elementi essenziali.
Guidato da un approccio di ricerca non ortodosso – in cui le immagini del passato sono metabolizzate attraverso la soggettività dell’artista – il lavoro di Andreani è teso a far riemergere persone invisibili e fatti dimenticati, luoghi e momenti spesso indissolubilmente legati all’esperienza storica, sociale e culturale del genere femminile. In molte delle sue opere Andreani, che si definisce una pittrice-ricercatrice femminista, si e ci interroga analizzando i modi in cui le donne sono state considerate e rappresentate in epoche diverse, evidenziandone le dinamiche di potere sottese e giungendo a scardinare stereotipi di genere.
Il suo “fare pittura con la fotografia” è alimentato da un rimpasto di tensioni latenti e di figure passate che, riattivate, diventano sentinelle del presente.
Le figure convocate sulle tele, insieme agli scenari e ai titoli che le collocano in contesti dai toni surreali, proiettano l’osservatore non solamente davanti a una serie di effigi, ma all’interno di un inedito e perturbante confronto con la Storia.
Facendo propria la tecnica del fotomontaggio e trasponendola in espressione pittorica, Andreani giustappone elementi estratti da immagini reali e dettagli di fantasia, per poi riconciliarli in una nuova unità iconografica all’interno della stessa opera.
I soggetti affiorano sulla superficie della tela grazie alla stesura di sottili strati di un unico colore, il grigio di Payne, una tonalità grigio-bluastra che evoca le ombre lontane del crepuscolo e rimanda a momenti passati dell’esperienza visiva, dalla cianotipia alle stampe vintage.
Punto di partenza concettuale per L’improduttiva sono stati i materiali iconografici contenuti in alcuni archivi di Reggio Emilia, attraverso i quali Andreani ha indagato il contesto storico e socio-politico della città, focalizzandosi sulle nozioni di confino e di prigionia, strettamente connesse alla storia delle donne.
Elementi del periodo intorno alla seconda guerra mondiale sono stati approfonditi attraverso il patrimonio documentale della Biblioteca Panizzi e di Istoreco – Istituto per la Storia delle Resistenza e della Società contemporanea; mentre un archivio privato e i materiali dell’Ex Ospedale Psichiatrico San Lazzaro, conservati presso la biblioteca scientifica Carlo Livi, hanno offerto all’artista la possibilità di una immersione nell’esperienza di vita (nascosta) delle internate dalla fine dell’Ottocento al secondo Novecento, restituite da Andreani alla storia attraverso una serie di sette ritratti (le “Sette Sante”).
La prima opera realizzata, che dà significativamente il titolo all’intera esposizione, è ispirata a una fotografia dell’inizio degli anni Quaranta che ritrae le allieve della scuola di taglio e confezioni istituita a Reggio Emilia da Giulia Maramotti, madre del fondatore della casa di moda Max Mara – azienda la cui prima sede originale era l’edificio di via Fratelli Cervi che oggi ospita la Collezione.
Lo sguardo di una delle sarte, beffardamente puntato verso l’obiettivo del fotografo, è il dettaglio fatale, il punctum che agisce come detonatore e trafigge lo spettatore – seguendo il pensiero del critico e semiologo Roland Barthes – che Andreani rileva ed enfatizza come nodo centrale per espandere il discorso, in cui chi osserva è chiamato direttamente in causa. L’interferenza dell’immagine corrisponde al luogo in cui l’artista trova il suo punto di ancoraggio per una riflessione sull’emancipazione femminile e il potere della divergenza.